Ricavi globali in crescita del 5,9%, Ricavi dallo streaming in crescita del 60,4%, ricavi dal digitale in crescita del 17,7, download in calo (20,7%) e fisico pure (7,6%) ma un fatturato globale che cresce e non di poco… FIMI riassume in poche ma essenziali cifre il Global Music Report 2017 di IFPI, un resoconto tutto sommato positivo dell’andamento del mercato discografico globale per il 2016. Il fatturato, come dicevamo, cresce e passa dai 14.8 miliardi del 2015 ai 15.7 del 2016. Non siamo ancora al 2000, quando il mercato dei dischi valeva 23.8 miliardi, ma bisogna ricordare che oggi il 50% dei ricavi (7.8 miliardi) deriva dal digitale, un settore in cui il rischio di impresa e i costi di produzione e distribuzione sono infinitamente inferiori rispetto al prodotto fisico. Potrebbe essere un sogno, un boom, se non si sapesse chi si occupa di streaming, ad esempio Spotify, ad oggi è di solito lontanissimo dal produrre guadagni. Nel 2016 proprio Spotiy ha perso più di 330 milioni di dollari con un giro d’affari di circa 3 miliardi, il 40% circa del valore di tutta la musica digitale. Lo dice pure Michael Nash di Universal: “se tirassimo un respiro di sollievo e pensassimo di essere arrivati, vorrebbe dire che interpretiamo male lo scenario. Alzare ora la bandiera della Missione Compiuta sarebbe il peggior errore che potremmo commettere”.
E l’Italia? Siamo il nono mercato discografico nel mondo, con 263,77 milioni di dollari. Il fatto che la piccola Olanda ci segua con 243 milioni deve farci capire che il rapporto tra italiani e musica è ben diverso da quello del passato, visto che qualche secolo fa la musica era soprattutto italiana (per questo, ad esempio, il pianoforte si chiama così, in italiano). Siamo una cenerentola ed il nostro repertorio attuale in ambito pop, amatissimo all’interno dei nostri confini (50% del mercato) all’estero è praticamente sconosciuto. Lo streaming in abbonamento (ovvero a pagamento) in Italia sale del 30%, il mitico vinile del 52%, mentre il mercato digitale è il 46% del mercato.
L’industria discografica si lamenta poi non poco del value gap tra YouTube e Spotify. Ovvero da ogni singolo utente Spotify (“solo” 212 milioni) la discografia ricava più o meno 20 dollari l’anno, mentre dall’utente medio di YouTube (ben 900 milioni) appena un dollaro. La discografia, ricordando probabilmente un passato dorato in cui il web non esisteva, ci fa sapere che il problema sarebbe YouTube, che comunque dei diritti musicali li paga. E che dire di Facebook & Instagram, piattaforme che ancora oggi non pagano diritti? Nel report di FIMI preferisce non accenna alla faccenda, che è probabilmente il vero problema di questo periodo.
Chiudiamo col mito del vinile, supporto di nicchia dedicato a collezionisti. Chi continua a celebrarlo in articoloni e peana non guarda i numeri. Questo supporto, sia pure in crescita, oggi rappresenta appena il 4% circa del business discografico ed il 3,6 dei ricavi. Nonostante la crisi irreversibile del CD, quest’ultimo vale il 90% del mercato fisico, il vinile appena il 10%.