Nella quotidiana messe di news spesso del tutto inutili per chi lavora davvero con la business music o nel music business in generale, spesso sembrano sfuggirci le notizie fondamentali. Spesso sembrano sfuggirci abitudini di business che, soprattutto nell’era digitale che viviamo, vengono trattate come protocolli che funzionano sempre: investo x in una certa attività ed ottengo y.
Anzi, soprattutto per chi come chi scrive arriva al marketing musicale dalla musica e dalla sociologia dei media, non dal marketing ‘puro’ (settore che ha tutta una serie di ‘regole’ non scritte che sembrano essere dimostrate e invece non lo sono affatto), quello attuale è un momento davvero divertente.
In questo periodo si parla moltissimo di big data musicali, si parla tanto di musica che in qualche modo riesce ad influenzare anche in negozio l’acquisto invece di creare ‘semplicemente’ un ambiente in cui il cliente può star tranquillo a comprare ciò che vuole. A tratti, oggi, il business musicale nell’ambito marketing e dintorni, assomiglia agli anni ’30, quando si credeva semplicemente che il ‘fruitore del messaggio’ dei media non facesse altro che subire ciò che gli viene proposto, senza scelte ed interazione. Si parla moltissimo anche di computer e dati che riescano a prevedere i successi musicali del futuro, mentre la storia dello show business racconta esattamente il contrario, ovvero che solo l’innovazione che sa essere folle porta ai grandi numeri.
Uno dei miti di questo periodo è ovviamente Spotify, che molti pubblicitari sembrano amare molto perché è la “Bibbia della musica”.
La pubblicità su questo media, ovviamente ,’colpisce’ soltanto chi la musica non la ama, visto che chi ascolta tanti brani ogni giorno ovviamente sceglie la versione Premium (senza pubblicità). Gli esperti di marketing diranno il contrario, ma forse tra ascolto random e pause si rischia davvero che il messaggio pubblicitario possa diventare fastidioso per chi ascolta.
Spotify, ovviamente, mica dorme. Chi in quell’azienda deve fatturare ha capito questa tendenza, che fa breccia soprattutto negli ‘esperti’ di ogni livello, anche in quelli che operano da soli o in aziende medio piccole… ed ha lanciato, dopo averlo già fatto negli USA, anche in UK e Canada Ad Studio, un servizio “self service” per creare pubblicità di 15 o 30 secondi da far ascoltare a specifici target di suoi utenti non paganti. Il minimo budget è 250 sterline in UK e comprende anche la creazione dello spot audio, che comunque le aziende possono creare da sole.
Grazie alla pubblicità nel 2017 Spotify nel 2017 ha incassato circa 416 milioni di euro, circa il 10% del suo fatturato totale. Un po’ poco per tutte le ‘news’, le magnifiche previsioni e le chiacchiere quotidiane che facciamo sull’argomento? Forse si
(Lorenzo Tiezzi)