Come molti italiani anche chi scrive ieri sera ha passato tante ore davanti alla tv a seguire Sanremo. Non ho ascoltato live tutti gli artisti ma quasi tutti si. Ho iniziato con un ascolto distratto, visto che stavo lavorando al pc… ma con un buon volume, utilizzando lo stereo di casa. Non voglio qui fare una cronaca né una critica dei brani in gara, ma provare a raccontare alcuni di essi, quelli avrebbero potuto essere almeno un po’ innovativi, dal punto di vista dell’impatto e quindi del paesaggio sonoro.
Si può senz’altro partire dicendo che livello dell’audio del festival è ormai buono, tale da far sentire forte e subito la differenza abissale tra gli artisti che davvero usano la propria voce come uno strumento ‘classico’ ben accordato (da Giorgia a Baglioni passando ovviamente per Andrea Bocelli) e chi prova ad arrangiarsi davanti al microfono.
Sono gli arrangiamenti essenziali, quelli che colpiscono davvero, a latitare. Ascoltando soprattuto in tv, dal vivo, le canzoni di Sanremo viene da pensare che artisti e tecnici ancora non abbiano proprio capito la lezione di Drake, Marshmello, The Weekend o Post Malone: tre strumenti che suonino bene, nel pop rock, suonano quasi sempre meglio d’una intera orchestra che fa cose banali. Ognuno può comunque giudicare da sé ascoltando la Billboard Top 100 e i brani di Sanremo su Spotify.
Non sono riuscito ad emozionarmi davvero, se non cercando di farlo… al secondo ascolto del brano di Motta, di cui ho ‘consumato’ su Spotify l’album “Vivere o Morire“. Moltissimo del fascino di quell’album, per me, consiste nel primo brano, “Ed è quasi come essere felice“, decisamente elettronico, in cui non si sentono chitarre… In “Dov’è l’Italia“, invece, oltre che un classico ritornello, che arriva ovviamente a un minuto, si sentono fin troppo bene tutti i classici strumenti del bravo artista indie italiano (chitarre acustiche, etc).
E’ davvero difficile valutare poi l’impatto sonoro dei brani di Ghemon, Ex-Otago, The Zen Circus o BoomdaBash, visto che queste band hanno deciso di portare sul palco una versione “light” della loro musica. Tra tutte queste canzoni, “Per un milione” dei BoomdaBash tiene comunque molto meglio delle altre, anche se gli archi nella versione sanremese nel ritornello, chissà perché, si sentono molto di più, “annacquando” l’immediatezza d’una canzone che ha il merito di voler essere solo ciò che è.
Non mi è davvero davvero colpito al primo ascolto neppure l’acclamata “Argentovivo” di Daniele Silvestri e Rancore. L’ho voluta comunque ascoltare più volte. Ho trovato comunque l’armonia già sentita, il modo di cantare di Silvestri sempre uguale, non così originale il testo… la parte armonica su cui rappa Rancore invece, finalmente, l’ho trovata eccellente, così come l’uso vigoroso dell’orchestra. Dispiace però purtroppo che nella versione live del brano manchi ciò che davvero spacca la routine del classico brano rock pop d’autore del brano, ovvero l’intervento di Manuel Agnelli che fa da ‘lancio’ alla parte rap… senza questo lancio “Argentovivo” resta un brano come tanti.
Una piacevole eccezione alla finta ricchezza sonora del Festival potrebbe essere la sobria interpretazione live che Mahmood sceglie di dare del suo brano “Soldi“. In fondo non c’è molta differenza tra il live e il disco, ma la piacevole assenza e virtuosismi nel live fa apprezzare di più una delle poche canzoni festivaliere ad essere davvero efficaci.
Chiudo con “Rolls Royce” di Achille Lauro, un brano rock in fondo malinconico in puro stile anni ’80 / ’90 (il riferimento a “Disco 2000” dei Pulp e al glam style alla David Bowie di “Heroes” sembra evidente). Almeno Achille Lauro, a differenza di tutti gli artisti artisti Sanremesi, “stona bene” e questo è un grande merito. Dal punto di vista dell’impatto sonoro però la canzone si ferma subito, al riff accennato di chitarra elettrica. La parte musicale, in generale, non sembra all’altezza di un testo diretto e finalmente non banalmente riferito a tematiche sociali.
(Lorenzo Tiezzi)