Spotify è argomento di discussione, sui media generalisti e altrove, per il suo attuale valore economico, senz’altro notevole, grazie alla sua spettacolare quotazione alla borsa di New York. Tra l’altro Spotify ha scelto la quotazione diretta, procedura, che, secondo Il Sole 24 ore, avrebbe spaventato o starebbe spaventando le banche d’affari, che in questo tipo di operazione guadagnerebbero, sembra, di meno… L’ottima valutazione raggiunta dopo il primo giorno di scambi (26,54 miliardi di dollari), secondo Marco Valsania, “ha messo il leader dello streaming musicale nell’orbita di un’altra società «disruptive», capace di rivoluzionare un settore: Netflix, sorella nello streaming – di film e spettacoli. Al netto del debito, Spotify è stata scambiata ad un multiplo di circa 24 volte i profitti lordi, contro le 31 di Netflix…”.
Certo, per molti economisti il successo di Spotify è una novità, una bella novità magari… ma chi nella musica lavora da da anni non può certo essere sorpreso. Infatti, lo streaming musicale nel suo complesso (Youtube, Spotify, Apple Music, Amazon Music, Tidal etc) ha già distrutto e ricreato da zero il settore musicale.
Il successo di Spotify e degli altri operatori che puntano sullo streaming a pagamento, soprattutto, è concreto già oggi, non stiamo parlando dell’auto solo elettrica, dei viaggi spaziali per tutti o di chissà cosa. Non è un fenomeno che “parallelo” agli hotel come Air Bnb. Né parliamo del successo crescente di Uber, che si sta affiancando ai taxi o della concorrenza treno / aereo in Italia sulla tratta Roma Milano, o quella tra Italo e Trenitalia.
Spotify Premium ed Apple Music e tutti gli altri servizi musicali di streaming a pagamento non funzionano perché costano meno del gratuito YouTube (che infatti costa di più) o di un cd pirata o di qualsiasi altra forma di fruizione musicale, compresi i servizi di streaming gratuiti.
Funzionano perché mettono in tasca dei loro abbonati tutta la musica che vogliono sentire. E mentre lo fanno creano valore per tutto il settore musicale. Anche se molti commentatori, presunti esperti ed addetti ai lavori del settore non sembrano essersene ancora accorti, lo streaming nel 2017 ha dato alla discografia americana, leader nel mondo, il 65 % dei suoi ricavi. Nel 2016 la percentuale è stata ben più bassa, appena il 51%, segno inesorabile di come girano le cose oggi. E non è tutto, il numero che fa più impressione nel recente report di Riia (l’associazione della discografia americana) è quello degli abbonati ai servizi streaming a pagamento: nel 2016 erano 22.7 milioni, nel 2017 sono diventati ben 35 milioni.
Tutto questo è ben più importante del successo in borsa di Spotify, che potrebbe pure non durare. La rivoluzione dello streaming a pagamento, invece, sembra poter durare per molto, molto tempo.
(Lorenzo Tiezzi)