Quand’è che le canzoni annoiano (e perché “Shape of You” ancora non lo fa)

Quand’è che una canzone ci viene a noia? Quando un successo, che ascoltiamo quindi spesso sui media, diventa per chi l’ascolta un tormento (e non un tormentone)?

Il dottore Michael Bonshor, psicologo specializzato in musica dell’Università di Sheffield si è occupato in recenti studi proprio di quest’argomento scoprendo cose che un po’ tutti già sappiamo. Ovvero che un brano ci viene a noia quando l’ascoltiamo troppe volte e che la faccenda del fastidio a risentire lo stesso pezzo è molto soggettiva e dipende anche o soprattutto dal grado di confidenza col mezzo musicale dell’ascoltatore.

Bonshor non è partito dal pop che gira intorno, come forse sarebbe stato più utile. Né dal fatto che oggi, rispetto a solo vent’anni fa, la musica pop più immediata è davvero dappertutto: spot web, campagne multimedia, wall pubblicitari per la strada. In una recente intervista con The Indepedent ha analizzato un capolavoro come “Bohemian Rhapsody” dei Queen, un pezzo ben lontano dalla struttura classica della pop song (che dura appena 3 minuti e mezzo e in cui l’inciso arriva necessariamente entro il primo minuto, etc).

Come capisce in pochi minuti chi abbia un minimo di capacità musicali, “Bohemian Rhapsody” è un brano molto ricco dal punto di vista armonico, un lungo viaggio pop (quasi 6 minuti) in cui succedono un sacco di cose musicali “pop”, ovvero piacevoli anche ad un ascolto epidermico (leggi distratto). E’ un brano in cui pieni e vuoti si susseguono, c’è il coro, c’è la voce solista, c’è una chitarra elettrica sontuosa ma l’armonia la porta avanti il pianoforte… Riassumendo, non può venire a noia all’ascoltatore medio, proprio come un altro dei capolavori della band di Freddy Mercury, la breve (e folle) “We Will Rock You”, un altro classico nato per non essere un classico (era il lato B di “We are the Champions”).

In realtà, per arrivare a capire qualcosa della faccenda tormentone / fastidio musicale di un brano ascoltato troppo, la (presunta) ripetivitità va contestualizzata. “Il Cielo in una stanza” di Gino Paoli e “Imagine” di John Lennon, capolavori immortali girano interamente intorno al giro di Do, la prima cosa che qualunque ‘chitarrista” impara a suonare. Eppure, va ribadito, resteranno nella storia della musica quanto Mozart. Questi due brani hanno in comune con “Shape of You” di Ed Sheeran e “Bohemian Rhaspody” un’altra cosa, ben più importante della densità / ricchezza armonica: sono dannatamente innovativi.

La musica, soprattutto oggi, per entrare subito in testa ai più non può che essere pop, ovvero leggera, levigata, semplice. Ma per non diventare subito noiosa non può che essere innovativa. Non può che cambiare le ‘regole’ di ciò che era pop prima di loro. Capire perché “Imagine” sia un capolavoro pop è fin troppo semplice, per cui è più utile soffermarsi su “Shape of You”, che mentre scrivo è arrivata a quasi un miliardo di plays su Spotify.

Tutto ciò accade perché “Shape of You” ha un arrangiamento decisamente originale, La ritmica, innanzitutto, è decisamente reggaeton / “black”, come in certi brani di Drake. Il ritornello / inciso poi arriva dopo 50 secondi, ma arriva senza che la canzone sia ancora esplosa, col cantante che soffia via la sua voce soprattutto in falsetto, dolcemente. Il testo parla di sensualità e locali, ma le sonorità sono educate, soffici, intime, perfette per un ascensore ma pure per uno stadio, perché il ritmo è, ovviamente, come dicevamo reggaeton / hip hop e non solo pop, come quasi tutte le hit di questi anni (i Coldplay sono un’eccezione).

Concludendo, la musica pop è una materia davvero sfuggente. Dal punto di vista musicale sembra semplice. Ma non tutto ciò che è semplice è banale. Altrimenti da domani Michael Bonshor o il sottoscritto scriverebbero un’altra “Shape of You” o un’altra “Ti Amo” (Umberto Tozzi) coprendosi d’oro.

(Lorenzo Tiezzi)