“Credo che l’industria discografica non esista più come settore. Credo invece che ci sia solo l’industria tecnologica, un settore su cui si stanno concentrando molte aziende. Accade anche per l’industria dell’educazione, anch’essa ormai parte della tecnologia”. Ecco come racconta su Mn2s il presente della discografica George Howard, professore associato alla Brown University ed al Berklee College of Music
Secondo lo studioso, gli investitori non vedono più la differenza tra tecnologia e musica. Max, azienda fondata dallo stesso Howard, cerca di mettere in comunicazione artisti, fan e brand e si è appena guadagnata 6 milioni di euro di venture capital. Allo stesso modo Dubset, che permette agli artisti di guadagnare con remix online ha appena raccolto 4 milioni… In realtà, ricordiamolo, si tratta di un eventuale futuro. Anche Dubset è una start up e ad oggi la rete è il regno dei remix non autorizzati, da cui oggi gli aventi diritto non guadagnano un solo euro.
Sicuramente Howard dice la verità, se parliamo di chi ha in mano soldi da investire. Chi è che investe, oggi, in nuovi artisti o nuove label o nuovi mercati musicali ‘offline’? Solo la tecnologia, come settore, sembra interessare chi ha in mano i capitali. Col risultato che pure Spotify, colosso dell’online, è in rosso, ovvero perde soldi. Forse sarebbe bello utile, anche solo dal punto di vista economico, ricominciare a parlare del valore della musica.
Secondo Howard e secondo Mn2s, queste ed altre tecnologie cambieranno la musica così come la registrazione ha fatto in passato. Come sarebbe stata la musica senza la possibilità di registrarla (lo si fa dal grammofono in poi) oppure senza la possibilità di ascoltarla alla radio ed oggi sul web? Probabilmente il paragone con la registrazione per lo sviluppo della musica futura, per questo tipo di software che semplicemente ‘organizzano’ musica sul web è eccessivo. Anche l’utilizzo del web è stata una rivoluzione rispetto alla radio ed ai supporti… ma la vera rivoluzione è stata quella della registrazione / diffusione via radio. Tutti gli altri cambiamenti sono importanti ma non epocali.
Probabilmente, la differenza tra l’industria tra gli anni ’50 – ’60 e gli anni anni 2000 è sostanzialmente economica: nella seconda metà del 900 la musica si pagava oppure era pirata. Fino a pochissimi anni fa, invece, grazie a YouTube e Spotify free, ‘tutta’ la musica era libera e gratis sul web. Oggi invece, grazie alla facilità d’uso dello streaming audio a pagamento, si è tornati a spendere volentieri per accedere alla musica (Lo dice anche un recente articolo su Forbes)
Ma per i molti che non vogliono o non possono permettersi di pagare, purtroppo o per fortuna, la musica è ancora oggi, di fatto, libera sul web. E chi la produce, da siti come Soundcloud e Facebook, ancora oggi non incassa un solo euro. Entrambe queste società infatti non hanno ad oggi trovato un accordo concreto con chi produce musica. Figuriamoci le migliaia di siti pirata e tutti coloro che producono impunemente mash up e bootleg ogni giorno utilizzando materiale tutelato per farsi, in sostanza, promozione gratis utilizzando musica creata da altri.
Se l’industria musicale in qualche modo ancora oggi resiste è grazie alle performance dal vivo, grazie a Google / YouTube, che pagano i giusti diritti alla discografia… e a chi, come AMP, paga gli aventi diritto per poter utilizzare ‘offline’ musica in contesti come negozi, spazi pubblici, pubblici esercizi.
Concludendo, e forse semplificando un po’, il futuro della musica sarà senz’altro ancora più tecnologico del presente… purché il presente resti legale. E forse, mentre si guarda al futuro ed ai grandi movimenti di capitali, sarebbe bene anche puntare l’obiettivo sul presente, su chi oggi (come AMP) paga e su chi (come tanti altri) invece sfrutta illegalmente la musica.